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ENTE COLLETTIVOE SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA AL VAGLIO DELLA GIURISPRUDENZA

Le ragioni del contrasto giurisprudenziale sull’applicabilità dell’art. 168 bis c.p. agli enti

L’applicabilità – o, se si vuole, l’estendibilità - all’ente collettivo della disciplina della messa alla prova rappresenta un argomento attuale non solo per gli innegabili riflessi pratici connessi alla soluzione ma anche perché, nonostante il noto intervento reiettivo da parte delle SS. UU. della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 14840 del 2023, non è mancata qualche successiva pronuncia da parte dei Tribunale di merito che è andata di contrario avviso, riconoscendo anche alla persona giuridica il diritto di avvalersi dell’istituto della messa alla prova, di cui all’art. 168 bis c.p.

Più nel particolare, il massimo consesso della Suprema Corte di Cassazione era stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del Procuratore Generale presso la Corte di Appello ad impugnare i provvedimenti riguardanti la messa alla prova e/o la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi del 464 septies c.p.p.; dalla soluzione affermativa data a tale preliminare quesito, conseguiva l’esame del motivo fondante proposto dal ricorrente, a dire del quale è giuridicamente precluso all’ente, nel corso di un processo istaurato a suo carico per l’accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex d.lgs. 2001 n. 231, avvalersi dell’istituto della messa alla prova.

Il diktat delle SS. UU. - “l’istituto della messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001” –, che definisce il contrasto interpretativo emerso nella giurisprudenza, si sviluppa prendendo in considerazione le motivazioni di volta in volta addotte per riconoscere o negare l’ammissibilità di detto istituto per gli enti, che possono riassumersi brevemente nei termini che seguono.

Per negarne l’ammissibilità è stata evidenziata la mancanza di una normativa di raccordo, il che, in ossequio al principio di riserva di legge, impedisce di rendere applicabile un istituto ai casi non espressamente previsti; d’altra parte, in assenza di una normativa di riferimento non sarebbero chiari gli stessi requisiti oggettivi di ammissibilità, lasciando in concreto ampi margini di incertezza operativa, con il rischio di introdurre per via giurisprudenziale un nuovo istituto del quale lo stesso giudice sarebbe poi chiamato ad individuarne i presupposti sostanziali e processuali, atteso, tra l’altro, che la scelta del Legislatore di non applicarlo agli enti sembrerebbe addirittura intenzionale in ragione della diversità di ratio sottesa, che ne propone una sorta di inconciliabilità sostanziale e processuale.

La tesi affermativa propugnata da alcuni Tribunali di merito poggia, invece, sul presupposto di poter operare con interpretazione estensiva ovvero analogica, sempre ammissibile quando da questa non derivino effetti negativi; né sarebbero violati i principi di tassatività e determinatezza anche perchè, contrariamente a quanto affermato dalla opposta giurisprudenza, dalla mancanza di norme di coordinamento non può desumersi la scelta del legislatore di escludere l’applicazione all’ente dell’istituto in questione; infine, l’incertezza applicativa dell’istituto non può significare necessariamente attentare alla fisiologica sfera di discrezionalità del giudice; in questa scia interpretativa, è stata anche affermata l’indispensabilità, per l’ente, di munirsi di un fattivo modello organizzativo per dar modo al giudice di formulare un giudizio positivo in ordine alla futura rieducazione dell’ente

 

La decisione delle SS. UU.

Ciò premesso, la sentenza in adunanza plenaria rileva innanzitutto la mancanza di un’espressa previsione legislativa sul punto; indi, si sofferma sulla natura della responsabilità in capo agli enti derivante dal D. lgs. 231/2001, ritenendola un tertium genus tra quella amministrativa e quella penale, vale a dire un tipo di responsabilità amministrativa nascente da reato, caratterizzata dal fatto di inglobare tratti essenziali del sistema penale ed amministrativo, ciò argomentando sulla scia dei principi di diritto sanciti nella sentenza Espenhahn e sulla base della Relazione ministeriale accompagnatoria al D. lgl. 231/2001.

La successiva analisi dell’istituto della messa alla prova induce i giudici di legittimità a ritenerlo immediatamente un trattamento sanzionatorio penale, richiamando in senso adesivo anche la Corte Costituzionale, per poi tratteggiarne, anche sulla scia dei principi scritti nella sentenza a SS. UU. n. 36273 del 31/3/2016, la natura sia sostanziale che processuale e la sua finalità special preventiva anticipatamente attuata, volta al raggiungimento della risocializzazione del soggetto, attraverso il superamento della classica sequenza cognizione- esecuzione della pena. Dunque, il “trattamento programmato - pur sanzionatorio - non è una pena eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale può liberamente farla cessare con l’unica conseguenza che il processo riprende il suo corso”.

Tanto premesso, l’inapplicabilità agli enti della sospensione del processo con messa alla prova deriverebbe, a dire della Corte, da varie ragioni: in primo luogo, per la violazione del principio di legalità, del quale la riserva di legge costituisce un corollario, sancito dall’art.25, II comma, della costituzione, in quanto verrebbe applicato un trattamento sanzionatorio penale nei confronti di un soggetto che non è destinatario ex lege; in secondo luogo, perché non sarebbe qui consentito il ricorso né all’analogia in bonam patem né all’interpretazione estensiva: la prima, preclusa dal principio di tassatività, che impedirebbe al giudice di applicare fattispecie e sanzioni penali oltre i casi espressamente e specificamente contemplati dalla legge; né può estendersi, come già sottolineato, un trattamento sanzionatorio a soggetti non destinatari di precetti penali, come, tra l’altro, sarebbe sancito dalla Relazione accompagnatoria al D. lgs. 231 del 2001; la seconda, giacchè l’interpretazione estensiva trova il suo limite nel doversi mantenere all’interno dei possibili significati della disposizione normativa. Poi, perché l’istituto della messa alla prova è stato concepito e modellato sull’imputato persona fisica, e resta finalizzato, attraverso un programma ed una valutazione basata sull’art. 133 c.p., alla sua risocializzazione: elementi, questi, non attuabili né esperibili per le persone giuridiche; ed ancora, viene sottolineato come, ai sensi del 168-ter c.p., l’esito positivo della messa alla prova estingue il reato ma non pregiudica l’applicazione di sanzioni amministrative accessorie ove previste dalla legge, che possono, dunque, essere disposte a prescindere dall’esito della prova; infine, perché verrebbe a crearsi una causa di estinzione dell’illecito al di fuori del sistema della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato, nella misura in cui porterebbe il giudice a pronunciare una sentenza di non doversi procedere ex art 464-septies c.p., non contemplata dal D. lgs. 231 del 2001.

Dunque, l’estensione di tale istituto agli enti porterebbe di fatto il giudice a dover ‘creare’ il suo ambito di applicazione, a dimostrazione del fatto che il sistema penale e quello delineato dal D. lgs. 231 del 2001 non sono omogenei e non possono sovrapporsi.

 

La risposta dei Giudici di merito: il Tribunale di Bari ed il Tribunale di Perugia

Ciò nonostante, alcuni Tribunali, anche dopo la decisione delle SS. UU., sono andati di contrario avviso, ritenendo ammissibile la richiesta dell’ente di avvalersi dell’istituto della messa alla prova.

Così, ad esempio, lo stesso Tribunale di Bari, in precedenza citato, che, con l’ordinanza del 22 giungo 2022 aveva ammesso la società incolpata alla messa alla prova, in data 15 giugno 2023, all’indomani della sentenza delle SS. UU. 14840/2023, depositata in data 6 aprile 2023, deposita la sentenza di non doversi procedere per essersi estinto il reato a seguito di intervenuto esito positivo della messa alla prova. Esso Tribunale, nel corpo della motivazione della sentenza, da atto dell’intervento delle SS. UU., che avevano statuito la non applicabilità agli enti dell’istituto della messa alla prova, ma con ampia motivazione, decide in senso contrario. Anche il Tribunale di Perugia, dopo aver premesso, al pari di quello di Bari, di potersi discostare, ai sensi dell’art. 618, comma 1-bis, dalla decisione delle SS. UU., contrasta, ripercorrendole, le motivazioni addotte dai massimi giudici. Gli argomenti enucleabili in queste due decisioni sono giuridicamente simili, anche se, per certi versi, si completano a vicenda. In particolare, viene ritenuto che, essendo la messa alla prova un trattamento sanzionatorio sic e simpliciter rimesso alla volontà della parte imputata – che non contesta l’accusa – la sua estensione agli enti avrebbe solo l’effetto di ampliare il ventaglio dei procedimenti speciali a suo favore. Né potrebbe ipotizzarsi la violazione dei principi di riserva di legge e di tassatività, in quanto si verterebbe in ipotesi di applicazione analogica che, se resta vietata, ai sensi dell’art. 25 cost., quando produce effetti negativi per l’imputato perché in malam partem, mentre è del tutto ammissibile quella in bonam partem, valevole per l’intera materia penale; né può invocarsi l’art. 14 delle Preleggi, non trattandosi di leggi eccezionali, posto che l’estinzione del reato, conseguente alla favorevole conclusione del trattamento, non deroga ad alcuno dei principi generali dell’ordinamento. Né, infine, il procedimento e le prescrizioni volute dall’art. 168-bis, comma II, c.p sono modellate esclusivamente sull’imputato persona fisica, ben potendo essere di appartenenza e pertinenza anche della persona giuridica, nei confronti della quale è anche possibile, al pari di quel che è previsto per la persona fisica attraverso l’art. 133 c.p., formulare il giudizio, necessario alla valutazione del programma, volto a stabilire se l’ente si asterrà dal commettere ulteriori illeciti grazie alla valutazione dei modelli organizzativi. In ultimo, seppur la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato non è contemplata dall’art. 67 del D. lgs. l. 231/2001, pur tuttavia, per effetto degli artt. 34 e 35 del D. lgs. 231/2001 non si produrrebbe alcuna creazione legislativa per intervento giurisprudenziale ma, anzi, si darebbe attuazione ad una sorta di estensione analogica espressamente consentita perché prevista.

Sulla base di tali principali ed assorbenti considerazioni, si conclude per l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova richiesto da un ente, una volta valutato positivamente il programma.

 

Una breve conclusione

Rimandando ad altra sede la valutazione delle varie opzioni tecnico-giuridiche fornite dai giudici, quel che qui preme sottolineare è la necessità, allo stato, di operare una scelta politico-legislativa sulla vicenda, evitando di rimettere alla giurisprudenza decisioni che diventano di sua spettanza per la mancanza di un intervento normativo ad hoc.

Valga qui solo la riflessione che le opposte tesi addotte, proprio perché fondate sugli stessi argomenti diversamente intesi e valutati, se mantengono una propria autonomia interpretativa, confermano la tesi di chi sottolinea come il ragionamento ermeneutico possa essere conclusivamente fallace o comunque privo di oggettive certezze.

Discutere sulla possibilità di ritenere la funzione risocializzante della pena anche per gli enti; sui limiti di applicabilità dell’interpretazione analogica e/o estensiva al caso in esame; sulla portata degli artt. 34 e 35 del D. lgs. 231/2001; sulla natura della responsabilità degli enti per come delineata nella normativa di riferimento; sulla natura dell’istituto previsto dall’art. 168 bis c.p. significa rimettere la decisione a valutazioni meramente tecniche mostratesi di opposta valutazione, evitando, così, di considerare che la vera questione resta quella di decidere, in chiave funzionalistica, se, alla luce delle attuali funzioni assegnate al sistema penale post moderno, l’istituto della messa alla prova, legislativamente coniato in epoca successiva al D. lgs. 231/2001, debba o meno essere applicato anche agli enti.

Questo non solo perché il coinvolgimento delle società in processi penali che riguardano i loro amministratori impone preventivamente di stabilire, con decisione politica, se e fino a che punto l’eliminazione volontaria del danno prodotto possa comportare il venir meno della loro responsabilità, a prescindere dal tipo e dalla natura che le si voglia assegnare; ma anche perché, perlomeno astrattamente, in chiave di ragionevolezza e proporzione, anche un ente potrebbe, al pari della persona fisica ed in casi ben determinati, andare esente da responsabilità in conseguenza di un determinato facere.

 

Dott. Gerardo Romano

 
 
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